lunedì 20 aprile 2015

I dont want to speak english

E' il primo post. Dovrebbe essere una specie di manifesto. 
E invece non so da dove cominciare. 
Perché l'inizio è importante, forse l'inizio, l'attacco, come si dice in gergo, è tutto: come parti così prosegui. Gli argomenti che mi vengono in mente come fondamentali sono tanti e non so quale scegliere. 
Ma forse non c'è da preoccuparsi: ci saranno - almeno si spera - così tanti articoli e così tanti inizi che sarà sempre possibile cambiare strada. 
Questo non è un romanzo o una poesia o uno spettacolo teatrale, chiuso in se stesso, e ogni post avrà un suo inizio e un suo argomento. 
Forse, dato anche il nome del blog, l'argomento da cui si dovrebbe partire è "la lingua"... non quella che ci avete in bocca (e che diamine!), ma quella che si parla, che si scrive, quella con cui si comunica, anche non attraverso il parlare e lo scrivere, la lingua, ad esempio, del corpo. 
E proprio perché trovo che la lingua sia fondamentale, la prima cosa che mi piacerebbe capire è come diavolo si fa a mettere in questo blog, nel sistema che questo blog offre, la "è", verbo, in maiuscolo, senza dovere ricorrere all'apostrofo, come con le tastiere americane. Sarebbe importante, almeno per me. 
Ecco, l'americano. Non l'inglese, ma l'americano. Ho la sensazione da qualche giorno che dietro la domanda: "parli inglese?", si nasconda un fantastico inganno della comunicazione contemporanea: si dice "parlo inglese", ma in verità quello che parliamo non è la lingua di Shakespeare o di Wilde o, più modestamente, di Bennet, ma l'inglese della finanza globalizzata e, soprattutto, globalizzante. 
E fosse solo questo - che sarebbe già un bell'argomento, ma non nuovo, altri ne hanno meglio di me già parlato, ad esempio il filosofo Diego Fusaro, il primo che mi venga in mente di quelli che ho ascoltato - fosse solo questo sarebbe già molto ma comunque un dato non nuovo. Il pensiero di qualche giorno fa era: "diciamo inglese, ma non è l'inglese, è l'americano". 
Io detesto l'inglese, è una lingua con la quale non riesco in alcun modo a rapportarmi. Ho provato a studiarla, tanto e tanto, lezioni private, corsi di vario genere, ma senza alcun risultato positivo. La sola cosa di cui sono perfettamente consapevole è che questo "inglese" ti circonda talmente tanto che anche se non vuoi ne conosci un mare di parole. 
Una insegnante che mi dava lezione, una delle tante che ho tritato con la mia incapacità, mi disse molto semplicemente: "conosci un sacco di parole ma non sai come metterle in fila". Era dannatamente vero. Se mi sforzavo, qualche frase la azzeccavo pure, ma da lì a parlare, almeno in forma elementare, ce ne passava... 
Ora, però, quando noi pensiamo a "l'inglese", pensiamo a l'Inghilterra. E certo, l'Inghilterra è Paese della Finanza (a proposito, una volta, in treno, parlando con una signora che mi pareva mediamente colta, dissi che uno dei problemi del nostro mondo era la Finanza. La signora mi rispose che avevo pienamente ragione... e cominciò a prendersela con la Guardia di Finanza. Non potei far altro che tacere, e passare poi ad altro argomento). L'Inghilterra, il Regno Unito è Paese della Finanza. Ma è il Paese delle multinazionali che stanno maledettamente dominando la nostra vita? Il Paese che ci impone il suo stile di vita? Il Paese degli iPhone e dei PC, degli hamburger e del "diritto alla felicità", il Paese delle mille e una illusioni, del "c'è il libero mercato e la concorrenza, se vali arrivi"? Il Paese della illusione della meritocrazia? 
Francamente non mi pare. Mi pare invece che tale Nazione siano gli Stati Uniti, e che il "dominio" arrivi da lì. Ma resta in qualche modo mascherato, perché... perché: "parli inglese?". 
E' come se per un microscopico artifizio linguistico ci sfuggisse l'effettivo "nemico". 
La lingua è tutto, sono le radici, è la terra, è ciò che sei dentro, è il luogo dove sei nato, è il riconoscere te stesso nei primi suoni che hai sentito nella vita, quando hai "visto la luce", la lingua è la madre, come e al pari della terra, poiché lingua e terra sono la stessa cosa. Cosa accade, allora, quando il senso della Lingua si confonde in noi, dentro di noi? Quando le carte si confondono, quando non riconosciamo più né noi stessi né l'altro, quando la comunicazione si scompone, frammenta, distorce? Cosa potrà accadere in noi quando non solo cominciamo lentamente a perdere la "nostra madre terra", ma ne acquisiamo un altra che già nel suo assunto è ingannevole, quando crediamo di stare andando verso un mondo e invece, senza che nostra volontà sia compartecipe minimamente, ci ritroviamo in un altro? Quali frizioni si scatenano in noi, quali distorsioni, quali schizzofrenie possono mettersi in moto? E se questa distorsione ci è indotta, a chi giova e perché? 
Stiamo perdendo i nostri dialetti, li stiamo perdendo, anzi abbandonando come un cane sull'autostrada, e questo non per correre, nuovi, verso una unica lingua nazionale, che magari ci renda finalmente un unico popolo, ma verso un disturbo, verso una distorsione che non ci consentirà nemmeno di scoprirci vittime se non dopo un lungo, interminabile, faticoso percorso, una sorta di Matrix del quale sarà difficile individuare cause, origini e natura. 
Le parole, dice Barhes, sono una chimica impalpabile che ti entra dentro e, che tu lo voglia o no, ti modifica. Ci troveremo modificati, forse, molto improbabilmente, un giorno, e ne comprenderemo le ragioni. 
I dont want to speak english, it's a social, political and economics opposition! (e che si scriva così o no, non mi importa)  

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