martedì 5 maggio 2015

Borges/ De Filippo: e il "diverso" compì l'impresa.


Nel suo “Abbozzo di un autobiografia” Jorge Luis Borges scrive: “La famiglia di mio padre aveva una tradizione letteraria. Il suo prozio Juan Crisóstomo Lafinur fu uno dei primi poeti argentini, e nel 1820 scrisse un’ode sulla morte del suo amico il generale Manuel Belgrano. Uno dei cugini di mio padre, Álvaro Melián Lafinur, che avevo conosciuto da sempre, era uno dei migliori poeti minori e più tardi entrò nell’Accademia argentina di lettere. Il nonno materno di mio padre, Edward Young Haslam, fu l’editore di uno dei primi giornali inglesi in Argentina, il «Southern Cross», ed era laureato in lettere o in filosofia all’Università di Heidelberg. Haslam non aveva potuto permettersi Oxford o Cambrige, così studiò e si laureò in Germania, dove seguì l’intero corso in latino. Morì a Paraná. Mio padre scrisse un romanzo, che pubblicò a Mallorca nel 1921, sulla storia di Entre Ríos. S’intitolava Il Caudillo. Scrisse anche (e distrusse) un libro di saggi, e pubblicò una traduzione dell’Omar Khayyâm di Fitzgerald con la stessa metrica dell’originale. Distrusse un libro di racconti orientali sul tipo delle Mille e una notte, e un dramma, Hacia la nada [Verso il nulla], la storia di un uomo che veniva deluso dal figlio. Pubblicò dei bei sonetti nello stile del poeta argentino Enrique Banchs. Fin da quando ero bambino, da quando cioè lui divenne cieco, era stato tacitamente stabilito che avrei fatto mio quel destino letterario che le circostanze avevano negato a mio padre. Ci si aspettava che io diventassi uno scrittore, e simili cose non dette son ben più importanti di quelle di cui si parla soltanto.”; e in un altro passo a proposito della madre: “Mia madre, Leonor Acevedo de Borges, proviene da un vecchio ceppo argentino e uruguayano (…) Suo nonno era il colonnello Isidoro Suárez che nel 1824, all’età di ventiquattro anni, comandò una famosa carica di cavalleria peruviana e colombiana che mutò le sorti della battaglia di Junín, in Perú. Fu la penultima battaglia della guerra d’indipendenza sudamericana. Sebbene Suárez fosse cugino in secondo grado di Juan Manuel de Rosas, che governò l’Argentina da dittatore tra il 1835 e il 1852, preferì l’esilio e la povertà a Montevideo piuttosto che vivere a Buenos Aires sotto la tirannia. (…) Un altro membro della famiglia di mia madre fu quel Francisco de Laprida che, nel 1816, a Tucumán, dove egli presiedeva il congresso, dichiarò l’indipendenza argentina, e fu ucciso nel 1829 in una guerra civile. Il padre di mia madre, Isidoro Acevedo, sebbene non fosse militare, prese parte alle guerre civili tra il 1860 e il 1880. Così ho degli antenati militari da entrambi i lati della famiglia; questo può spiegare la mia smania per quel destino epico che, senza dubbio molto saggiamente, gli dèi mi hanno negato.”
Il racconto che Borges fa della sua vita è splendido, di straordinario fascino, anche perché condensato in una sessantina di pagine, non di più, e questo, se si pensa alla durata ed alla intensità della sua vita, è già di per sé stupefacente. Ma questi che ho citato, come altri, differenti passaggi sulla sua famiglia, uniti a quelli in cui descrive sé gracile, fragile, occhialuto in modo tristemente profetico, colpiscono particolarmente. L’indifeso Jorge Luis pare avere fin dalla nascita, sulle sue minute spalle, il peso ed il destino futuro di una famiglia magnifica e magnificata. Come assolverà a tale compito, soprattutto rispetto alla parte militaresca di cui la madre è genealogicamente la maggiore portatrice? I genitori stessi paiono venirgli in debito soccorso. In quel: “Fin da quando ero bambino era stato tacitamente stabilito che avrei fatto mio quel destino letterario”, essi gli predispongo la risoluzione del problema.

Claudio Magris, in un delizioso saggio pubblicato sul Corriere della Sera (che ho letto ma ora non ho più), ipotizza che il mondo di questo autore, così intento alle catalogazioni, narratore instancabile di storie di gauchos e coltelli, inventore di racconti fantastici, accusato, spesso con evidente ignoranza, di erronee appartenenze politiche, sia in realtà quello di un uomo attaccatissimo alla vita, la cui apparente fuga nell’iperbole è motivabile proprio con la sua difficoltà a vivere. È la nostalgia della vita, dice Magris, a costringere Borges nel suo mondo irreale; l’attaccamento alle cose, cui in alcune poesie attribuisce quasi un respiro, una esistenza parallela alla nostra, ne è una riprova.

Jorge Luis Borges nasce il 24 agosto del 1899. Poco meno di un anno dopo, il 24 maggio del 1900, nasce, nell’opposto emisfero, un altro autore i cui testi faranno il giro dei palcoscenici mondiali: Eduardo De Filippo.
“Sono nato a Napoli il 24 maggio del 1900, dall’unione del più grande autore-attore-regista e capocomico napoletano di quell’epoca, Eduardo Scarpetta, con Luisa De Filippo, nubile. Mi ci volle del tempo per capire le circostanze della mia nascita perché a quei tempi i bambini non avevano la sveltezza e la strafottenza di quelli d’oggi e quando a undici anni seppi che ero “figlio di padre ignoto” per me fu un grosso choc. La curiosità morbosa della gente intorno a me non mi aiutò certo a raggiungere un equilibrio emotivo e mentale. Così, se da una parte ero orgoglioso di mio padre, della cui compagnia ero entrato a far parte, sia pure saltuariamente, come comparsa e poi come attore, fin dall’età di quattro anni (…), d’altra parte la fitta rete di pettegolezzi, chiacchiere e malignità mi opprimeva dolorosamente. Mi sentivo respinto, oppure tollerato, e messo in ridicolo solo perché “diverso”. Da molto tempo, ormai, ho capito che il talento si fa strada comunque, e niente lo può fermare, ma è anche vero che esso si sviluppa e cresce più rigoglioso quando la persona che lo possiede viene considerata “diversa” dalla società.
Infatti, la persona finisce per desiderare di esserlo davvero, diversa, e le sue forze si moltiplicano, il suo pensiero è in continua ebollizione, il fisico non conosce più stanchezza per di raggiunger la meta che s’è prefissata. Tutto questo però allora non lo sapevo e la mia “diversità” mi pesava a tal punto che finii per lasciare la casa materna e la scuola e me ne andai in giro per il mondo da solo, con pochissimi soldi un tasca ma col fermo proposito di trovare la mia strada. Dovrei dire: di trovare la mia strada nella strada che avevo scelto da sempre, il teatro, che era stato ed è tutto per me.”

Due “diversità”, dunque, una più fisica ed una morale, vissute differentemente proprio grazie al supporto familiare, ma dietro le quali, forse, si nasconde una simile finalità. Almeno così pare dalle loro parole. Quasi coccolato, tenuto al caldo, Borges; additato e respinto De Filippo. Come due pugili suonati e messi nell’angolo dai rispettivi avversari, Jorge Luis Borges e Eduardo De Filippo, sentono il peso delle loro origini, ed il problema, per entrambi, appare essere: come sopportare, superare e liberarsi di questo peso? Nel caso dell’argentino sono fantasmi, leggende di famiglia o, materialmente, libri; per l’italiano il rapporto è tangibile, concreto, con la consorteria sociale degli uomini del suo tempo. Per Borges sembra palesarsi il timore di non riuscire a rispondere alle tradizioni di famiglia, in De Filippo pare nascere il desiderio di superarle a proprio esclusivo e definitivo riconoscimento. L’amore per la madre li accomuna, li differenzia il rapporto con il padre, affettuoso, rispettoso e non conflittuale, anzi complice, quello del poeta; di stima, ammirazione ed al contempo di “odio” quello del commediografo.
“La fitta rete di pettegolezzi, chiacchiere e malignità mi opprimeva dolorosamente”, scrive Eduardo. “Ci si aspettava che io diventassi uno scrittore, e simili cose non dette son ben più importanti di quelle di cui si parla soltanto”, scrive Borges. Un intenso tessuto comunicativo privo di parole circonda i due – i pettegolezzi non arrivano mai direttamente all’orecchio di chi ne è vittima, altrimenti non sarebbero tali

“La persona finisce per desiderare di esserlo davvero, diversa, e le sue forze si moltiplicano, il suo pensiero è in continua ebollizione, il fisico non conosce più stanchezza per di raggiungere la meta che s’è prefissata, e me ne andai col fermo proposito di trovare la mia strada”.
Studio, rigore, applicazione, dedizione totale alla propria arte, curiosità instancabile, passione! Su questi gli elementi – che non avrebbero senso se dietro a tutti non ci fosse quell’entità inafferrabile che definiamo “talento” -  i due uomini costruiscono il proprio destino.
Chi oggi guarda all’Argentina, pensa, di primo acchitto, indiscutibilmente, a Buenos Aires, alla Pampas o al tango, ma sicuramente anche al grande poeta cieco, all’Omero della nostra epoca, come è stato più volte definito Borges con una facile, superficiale similitudine. I suoi antenati sopravvivono magnificati perché lui, ora, ne racconta, ed è, in fondo, divertente vedere che il più piccolo e fragile della famiglia, il “brocco” su cui nessuno alla partenza avrebbe scommesso un soldo, è adesso il più grande ed acclamato.
Per De Filippo il gioco è più sottile, ma arrivato in fondo non meno fruttuoso. Non esistono dati che ce lo confermino, ma l’ipotesi non mi pare del tutto peregrina. Schivato, additato, respinto, messo in ridicolo dalla società che lo circonda, il giovane Eduardo sente, al contrario di Borges, il peso di un nome non presente, ma assente, quello del padre. Può fare solo due scelte: soccombere, o edipicamente uccidere il re per prenderne il posto.
Il sogno della pacificazione e del riscatto del suo cognome, del cognome della madre (e del riscatto della madre stessa), è nella sua commedia più famosa, “Filumena Marturano”, e non casualmente il titolo è proprio un nome e un cognome, nome e cognome di una donna, di una madre, nome e cognome che la protagonista sa scrivere a stento. Quel nome “indicibile” può appena rimanere sulla carta, appena per i documenti legali e indispensabili ad attestarne l’esistenza. Ma è necessario, per Filumena, partire da una truffa, da un imbroglio per realizzare tutto questo. Eduardo sa bene, invece, che nella vita non si imbroglia, soprattutto sa che in teatro non si imbroglia, mai. Così non gli resta che uccidere il padre, e come farlo se non che con le sue stesse armi?   
“Il più grande autore-attore-regista e capocomico napoletano di quell’epoca, Eduardo Scarpetta”, dice. “Di quell’epoca”, non di quella a venire che è tutta nelle mani del giovane “figlio di padre ignoto”. Oggi, a richiamare alla memoria, di primo acchitto, le voci di Napoli, viene in mente lui. Il resto è dopo. Il re è morto. Il “diverso” ha compiuto l’impresa.

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