martedì 4 agosto 2015

IL TRITTICO, LA DIVINA COMMEDIA DI PUCCINI


Or drizza ‘l viso a quel che si ragiona


Puccini si arrabbiava quando gli “spacchettavano” il Trittico. E aveva ragione!  L’opera, seppur divisa in tre episodi e composta non consecutivamente, ha una sua unità, netta.
Solo l’irriverenza, infatti, il gusto per il paradosso e la battuta fulminante, la sfrontatezza, di un toscano potevano immaginare di costruire una Divina Commedia in musica, che oltre tutto ritrovasse il suo Paradiso attraverso un personaggio dell’Inferno dantesco, utilizzando uno schema e una corrispondenza estremamente semplici:
1 – Tabarro/Inferno
2 – Suor Angelica/Purgatorio
3 – Gianni Schicchi/Paradiso


Il Trittico fu composto durante la Grande Guerra e il carteggio ci dice quanto Puccini sentisse come terribile l’evento. In lui non si ritrova quella attrattiva per gli ideali patriottici o per il “bel gesto” che esaltarono altri artisti o intellettuali italiani. Per Giacomo, la guerra è solo guerra, ed è un inferno dell’anima. La scelta de Il Tabarro è precedente il conflitto, ma la totale articolazione del lavoro si compirà durante la ’15 -’18, e attraverso questo percorso, che definiremo “para-dantesco”, Puccini indica una via di rinascita, di rigenerazione, la fiducia in un futuro migliore, a patto che l’uomo sappia abbandonarsi alla forza vitale dell’arte… la Storia ci dice che solo venti anni dopo i popoli si ritrovarono in un nuovo conflitto.
In questo viaggio dall’Inferno al Paradiso, l’elemento guida, quasi l’Io narrante, è quello femminile, da Giorgetta ad Angelica a Lauretta.
Partiamo dalla fine, da Lauretta, e da una indicazione dal testo. L’idea comune, infatti, è quella di una ragazza ingenua, ma l’elenco personaggi ci dice che ha 21 anni, età in cui, stando all’epoca della trama, una donna era fin troppo avanti per maritarsi e avere figlioli. Lauretta è dunque donna adulta, e nettamente determinata. Il suo “O mio babbino caro” è non solo il vero nodo drammatico di “Schicchi”, ma il punto di risoluzione di tutto il percorso del Trittico. Lauretta non implora il padre, come sembrerebbe, ma ne determina la decisione, esplicitando, pur nella dolcezza, l’ineluttabilità della sua scelta. Il suo “buttarmi in Arno” non è minaccia, ma avvertimento. 
Tutto ciò anche considerando i 21 anni in epoca pucciniana, poiché da questa spinta del femminile, che cerca e vuole il proprio completamento, nasce il travestimento, la finzione, il gesto teatrale di Schicchi che porterà alla felicità dei due giovani, alla fiducia in futuro “affacciato” sulla “ricca, splendida” Firenze. E in questo gesto, oltre Gianni, ognuno è coinvolto, costretto in un segreto, in una finzione acquisita come Verità, in poche parole: Teatro; in poche parole: il Paradiso e la speranza sono legati all’atto più antico e completo dell’umanità, quello teatrale, quello da cui tutto nasce, in cui tutte le arti e tutte le risposte che l’uomo cerca sono già contenute. Per questo la chiusa di Schicchi non è affidata al canto, ma a quel declamato alto che rimanda all’origine della cultura occidentale, e Gianni, compiuta la sua opera, non ha più nulla da cantare: tutto è ormai nelle mani dei due giovani.

Ma se Lauretta è compimento del percorso, da dove eravamo partiti? Da Giorgetta, da quella chiatta sulla Senna che tanto ricorda la barca di “Caron dimonio, con gli occhi di bragia”, e la piccola brace, della pipa e del fiammifero, sono parte dell’inganno che costerà la vita a Luigi e - si resta nel dubbio - a Giorgetta, novelli Paolo e Francesca, in un ambiente oscuro, fondo, al di sotto dello scorrere del vivere umano. In alto lontano una Notre-Dame imponente, platani lussureggianti, amanti che dolcemente si salutano; invece, per andare alla chiatta di Michele si scende, in basso, come nell’Inferno, un inferno in cui gli uomini sono condannati ad eterna pena, e dove i pochi elementi lieti sono richiamo a un passato ormai solo sognato, come la casetta desiderata dalla Frugola, o la Belleville dei due amanti.  Per tutti, in scena e in platea, il ricordo felice degli anni in cui viveva d’amore e per amore moriva Mimì, piccola tenerezza che il musicista concede prima di tutto a se stesso, quando “era gioia la vita”. Giorgetta è costretta al suo inferno, non può uscirne - i due amanti, curiosamente, non parlano di fuga, ma solo di desiderio - e il suo inferno ha un punto di inizio chiaro: la morte del figlio. La gioia della maternità le è stata negata e con essa il futuro. Giorgetta non guarda al futuro, non ha futuro
Il figlio morto è il punto di raccordo con la straziante storia di Suor Angelica. L’atto centrale del Trittico è forse il più interessante e pregno di richiami, nemmeno tanto mascherati, al poema dantesco (“liberamente al desiar precorre” per “liberamente al domandar precorre”, preghiera di Bernardo alla Vergine). La seconda cantica del Poema è certamente la più umana poiché in essa vi è il Tempo. Infiniti Inferno e Paradiso, il Purgatorio si distingue per la necessità del tempo, che scandisce l’attesa del passaggio delle anime, e nel XXVII canto, come a insistere sull’incidenza del Tempo, giunge il tramonto, poi la notte, e Dante si addormenta, sognando di una donna, Lia, che coglie fiori per intrecciare una ghirlanda. 
Il convento vive nella scansione del tempo: da quello della preghiera a quello del lavoro, fino ai tre giorni l’anno della fontana dorata dal sole. Ed Angelica, che si occupa di fiori e di erbe coltivate per curare, e dalla cui conoscenza scaturirà il rischio della sua perdizione assoluta, conta ore e giorni che l’hanno separata dal suo bambino, nell’attesa di una qualche notizia. “Giunto alla sommità del Purgatorio, giunto al paradiso terrestre, Dante è abbandonato da Virgilio, e si trova solo, e lo chiama” (J. L. Borges), ma in quel momento, in suo soccorso giunge una donna, Beatrice, che dopo averne impietosamente declinato i peccati, gli apre la via per il Paradiso. Angelica riconosce il suo estremo peccato, il tentativo di suicidio, e invoca la Vergine, che accolto il pentimento compie il miracolo. L’apparizione del bambino ha funzione simbolica: se per il compimento del percorso dell’uomo Dante è necessaria l’aiuto del femminile, ad Angelica giunge in soccorso l’elemento maschile, che non può essere un adulto in quanto ricorderebbe la colpa, anche di Giorgetta, ma quel bimbo, ancora puro, del quale il fato ha privato entrambe. In quel bimbo, le due figure femminili si purificano e trovano la via verso la nuova vita, verso Lauretta.
Maschile e femminile si ritrovano, attraverso il percorso di crescita, presa di coscienza e sviluppo del femminile, nell’atto d’amore più umano che esista, il bacio, negato da Giorgetta a Michele ad inizio d’opera, che drammaticamente e ambiguamente conclude Il tabarro, ricordato in Angelica come unico momento di gioia con il figlio, e che esplode prima come ricordo felice, poi come gesto tra Rinuccio e Lauretta alla fine del Trittico. La complementarietà è ricostituita, guarda fiduciosa al futuro, e chissà… si presume avranno dei bambini. 

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