venerdì 20 novembre 2015

COME L'AMERIKANO TI SMONTA L'AMERIKANO: LO YOGA DELLA RISATA.

Trovo su FB questo interessante post del grande Hal Yamanouchi. Ve lo propongo. Ho corretto solo poche parole, lasciando tutto il resto come Hal, nel suo simpatico italo-nipponico ha scritto, evidenziando alcuni passaggi particolari e inserendo link di supporto.
"Con la "Teoria periferica delle emozioni", William James capovolge l'idea comune secondo cui alla percezione di uno stimolo segue un'emozione, che è anche accompagnata da manifestazioni a livello somatico; James sostiene al contrario che la manifestazione somatica precede l'emozione, che successivamente viene riconosciuta a livello "cognitivo". L'uomo non ride perché è felice; ma è felice, perché ride. L'uomo non fugge perché ha paura; ha paura perché fugge.
Quando ero alle Elementari in Giappone, uno strano tizio venne a scuola e insegnò a noi scolari a ridere partendo dai movimenti. Prima lo pensavamo un pazzo. Dopo 60 anni, mi rendo conto che era un saggio, un'entità illuminata che andava in giro incoraggiando i giapponesi del dopo-guerra. Si chiama Rakan Oikawa.
Ora dall'India è partito un movimento dello Yoga della Risata, promosso da maestro Madan Kataria. Un grande movimento terapeutico che sfida l'enorme difficoltà che l'umanità sta affrontando, nel periodo di transizione epocale. "Motion creates emotion", dice Kataria. Un'altra entità che è venuta per incoraggiarci.
Tanti esercizi che io propongo nei miei workshop sfruttano questa dinamica. Attraverso movimenti gioiosi, armoniosi e biophili, vengono stimolati circuiti nervosi che rinforzano questi sentimenti e che ci orientano in tale modalità d'agire. Diventiamo sempre più auto-propositivi, giocosi, sperimentali, auto-apprezzanti e auto-sufficienti.
La civiltà corrente ha sottolineato troppo sulla dinamica di dipendenza reciproca tra individui, come se credesse che per "amare" altri, dobbiamo essere dipendenti e frustrati. E' tutto contrario. Solo coloro che sono auto-sufficienti e auto-contenti sanno amare in modi equilibrati.
Così stanno girando un altro tipo di voce e una cultura alternativa, che basandosi sull'auto-sufficienza e sull'auto-illuminazione stanno divulgando in ombra della cultura dominante (quella consumista, competitiva, lamentosa, scontrosa ed ossessionata).
Yoga della Risata è una di questi movimenti alternativi.
Per chi vuole, qui il video del maestro Kataria. 
Al di là di questa particolare pratica Yoga che ho provato ed è effettivamente molto divertente, l'aspetto che mi interessa è quello attoriale che dalla teoria di James possiamo dedurre. 
Soprattutto considerando che James è statunitense. Negli USA è nata la teoria di Lee Strasberg e il suo arcinoto Actor's Studio che ci ha certamente regalato decine di magnifici attori. 
Ma il presupposto della totale immedesimazione di Strasberg - a chi ha un minimo di dimestichezza con la materia appare subito evidente - viene ad essere palesemente smontato da James. Involontariamente smontato da James, il quale non solo è vissuto decenni prima, ma non si occupava certo di formazione d'attori. 
Concentrarsi, immedesimarsi, scendere nel profondo delle proprie emozioni, scavare alla ricerca di ricordi, riportare alla luce dal fondo dell'animo le emozioni, gli accadimenti che vanno in sovrapposizioni o in parallelo con le azioni da rappresentare, ecc. Dunque, potremmo sintetizzare sia pur sbrigativamente, cercare una emozione da cui scaturisca l'azione: piango perché sono triste (e quindi ricerco in me una tristezza per scatenare il pianto). 
C'è invece un piccolo aspetto che si rileva nella "recitazione europea" che viene spesso dagli attori sintetizzato in questa semplice frase: "cavolo, mi sono proprio emozionato questa sera". 
Forse il primo punto che va chiarito è che: se tu attore sei o non sei emozionato, a noi pubblico ce ne frega niente. Io spettatore non pago il biglietto per vedere te che ti emozioni ma per emozionarmi io. Una verità semplice che ci ricorda che il nostro primo obiettivo è suscitare emozioni fuori di noi, e ciò che avviene dentro di noi è irrilevante, o comunque non interessante
Ecco che allora, dalla ricostruzione "matematica" del percorso, noi attiviamo azioni (se mi consentite questo bisticcio di parole), utilizziamo fondamentalmente strumenti della comunicazione verbale e non verbale perché chi è in platea "legga" un determinato senso, quel senso che noi, su base interpretativa compiuta quasi tutta aprioristicamente (il quasi è importante), abbiamo scelto di indicare. Per far questo, come magnificamente Barba ci ricorda metodologizzandolo sulla base di una esperienza secolare e universale, per far questo il controllo diviene l'aspetto fondamentale. E il "lasciare andare l'emozione" diviene successivo alla perfetta scrittura e esecuzione della "partitura" fisico-vocale-mentale (mettete le tre parole nell'ordine che preferite il risultato non cambia). 
Ma cosa vorrà dire questo "lasciare andare le emozioni"? Che lasceremo uscire il pianto o la gioia senza che più si attivi il controllo? 
Non credo. Credo invece che si voglia intendere, in questo gergo teatrale mai scientifico ma sempre artigianale, che una volta sicuri della esecuzione controllata si lascia un minimo margine di libera esecuzione alla "partitura" stessa, facendo sì che, a quel punto, non si agisca la "partitura" ma se ne venga agiti onde non soffocare la possibilità di scoperta di un ulteriore spazio di esecuzione non previsto e che nasca nel tempo presente dell'azione. E quella scoperta si rivela spesso irripetibile in altra esecuzione. 
"L'emozione" lasciata andare, dunque, non è vita reale riprodotta in palcoscenico, ma sbilanciamento momentaneo della forma non prevista dalla razionalità. E' l'ingresso dell'irrazionale nel razionale preordinato e assimilato. Indichiamo, io credo, come "emozione" non il dolore o la pena o l'allegria, ma la "non razionalità" che si manifesta nella esecuzione. 
Se la teoria di James ha un fondo di verità, e io credo che ne abbia proprio sulla base delle esperienze mie e di migliaia di attori, la ricerca del "gesto narrativo" sganciato dalle personali emozioni dell'interprete, non solo provocherà emozione nello spettatore, ma per l'interessante meccanismo illustrato da James, potrebbe provocare anche stati emozionali reali, di vita quotidiana, nell'interprete. 
Se dunque cerchiamo una emozione - nel senso quotidiano - una emozione sulla quale "poggiare i piedi" da porre a base per la nostra costruzione, per amplificare la possibilità di lettura del senso che vogliamo indicare, per sperimentare la validità di un percorso innanzi tutto su noi stessi (e non perché la nostra emozione sia più importante di quella dello spettatore, questo ricordiamolo sempre), sarà l'agire un abbraccio a suscitare il calore, il disegnarci un sorriso sul volto a generare una allegria, l'allontanarci a lasciar "leggere" un timore... 
Ecco perché mi pare chiaro che James lo statunitense smonti Strasberg l'amerikano. 
Che poi, alla fin fine, tre ore di post e sette chili e mezzo di parole per dire ciò che Laurence Olivier disse di Dustin Hoffman sul set de "il maratoneta": 
Olivier - "Dov'è il sig. Hoffman? Dobbiamo girare la scena"
Assistente "Sta correndo qui intorno per farsi venire l'affanno"
... 
Olivier: "Dov'è il sig. Hoffman?"
Altro assistente: "Corre per la scena in cui deve avere l'affanno"
... 
Olivier: "Ma dov'è il sig. Hoffman?"
Un altro assistente: "Arriva, è andato a correre per fare la scena dell'affanno"
Olivier: "Dio santo, ma perché non prova a recitarla?!" 


   

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